benvenuti in zucchero d'oro

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benvenuti in ZUCCHERO D'ORO

sabato 6 novembre 2010

la storia della pasticceria secondo la rai

Il dolce: da prodotto per un’élite alla produzione industriale
Siamo nella seconda metà ’800 e nell’Italia appena unificata, a causa di problemi economici, viene razionato il cacao. È in seguito a questo provvedimento che, con un guizzo di inventiva, Pier Paul Caffarel fa di necessità virtù: mescolando le nocciole al cioccolato dà vita, nel 1865, al Gianduiotto, il cioccolatino che, antesignano del made in Italy, conquisterà il mondo. In Italia la grande avventura industriale inizierà solo negli anni ’60, in seguito al boom economico: nascono i marchi e la pubblicità si fa anima del commercio. Ma il mercato italiano è ancora caratterizzato esclusivamente dai beni di lusso: i dolci sono prodotti per le grandi occasioni e i biscotti monopolio degli Inglesi. In un Paese di acciaierie e legato alle antiche tradizioni, quindi, le aziende iniziano a esportare e a conquistare il mercato internazionale: è il caso del laboratorio dei Vicenzi di Verona che, nel 1979, ottengono, come secondi classificati, il “Premio Export” nel settore dolciario.

Intanto le industrie dolciarie iniziano a impiegare le donne per la loro precisione nel confezionamento: l’affrancamento economico della donna, quindi, comincia proprio con i dolci. Ad esempio negli anni ‘30 alla Perugina, erano stati già organizzati reparti che prevedevano le nursery. In realtà si trattava ancora di esperienze limitate, e solo nel secondo dopoguerra infatti con la modernizzazione del Paese, le donne entreranno a far parte integrale dell’industria dolciaria.

I dolci però sono ancora preparati esclusivamente in casa e legati al calendario liturgico: ci sono quelli di Natale, quelli di Pasqua e quelli dei Santi patroni. Secondo il calendario agricolo, per la trebbiatura si preparano i ciambelloni da intingere nel vino, e per la vendemmia le focacce con l’uva. Anche per celebrare gli eventi familiari ci sono dei dolciumi specifici: alle nozze si offrono gli zuccherini, mentre ai funerali s’impastano biscotti con farina, miele e bianco d’uovo. I cicli stagionali influenzano gli ingredienti delle ricette: in primavera si usano latticini e formaggi freschi; in estate frutta e miele; in autunno mosto, castagne, noci e nocciole; in inverno frutta secca e candita.

La tradizione della pasticceria italiana, oltre al calendario, è sempre stata determinata da una combinazione di fattori climatici e storici. Al Nord prevale l’uso del latte, della panna e del burro, l’impiego di mele, frutti di bosco, nocciole e castagne, e di grano saraceno e segale in ambito alpino, con i distillati e i liquori ad arricchire il tutto. Al Centro Sud sono grandi protagonisti la ricotta e il mosto, le mandorle e i fichi, i pistacchi e la frutta candita, il grano e l’olio d’oliva.

L’Italia comincia a passare dal consumo casalingo, in cui le mamme fanno le merendine in casa, a un mondo industriale in cui i prodotti posso essere comprati, solo quando il Paese si industrializza durante il boom economico. Questi nuovi prodotti vengono lanciati con il carosello e spesso vengono sponsorizzati da grandi attori come Gassman, Corrado, Walter Chiari, De Sica…

Con il tempo l’evoluzione della comunicazione ha cercato di trovare nuovi spazi, per cui la merenda tradizionale data ai bambini è stata affiancata anche da prodotti per gli adulti che, quindi, si sono diversificati: da quello che dà un’energia in più, a quello ipocalorico, a quello spiritoso.

Il cioccolato
Considerato dai più una “piccola meravigliosa droga naturale”, nonché “il cibo degli Dei” per gli Aztechi, il cioccolato arriva in Europa solo nel ‘500, e inizialmente viene consumato prevalentemente liquido. Servito quindi come bevanda, il nuovo nettare viene ben presto “modificato” dagli Europei, in particolar modo dagli ordini monastici spagnoli, depositari di una lunga tradizione di miscele e infusi, che ci aggiungono la vaniglia e lo zucchero per correggerne la naturale amarezza.

Per tutto il '500 il cioccolato rimane un'esclusiva della Spagna, che ne incrementa le coltivazioni in Sud America, e solo nel '600, attraverso la Toscana, il cacao arriva in Italia per merito del commerciante di Firenze Antonio Carletti. Il resto d’Europa conoscerà il cioccolato solo nel 1615. In Italia la capitale del cioccolato è Torino. È qui infatti che alla fine del XVIII secolo viene creato da Doret il primo cioccolatino in forma solida, come lo mangiamo oggi, ed è sempre qui che Caffarel nel 1826 inizia la produzione di cioccolato in grandi quantità grazie a un’innovativa macchina capace di produrre oltre 300 kg di cioccolato al giorno.

La storia del cioccolato è complessa, inizialmente era una bevanda utilizzata esclusivamente dai ricchi e dai monaci, tanto che per diversi decenni vi fu la questione se bisognava interromperne il consumo durante il digiuno oppure no, finché Papa Pio V, vi pose fine affermando che il vino e il cioccolato, in quanto bevande, non lo interrompevano. Solo negli anni ’70 entra finalmente nelle case di ogni italiano, ma si tratta ancora di un prodotto speciale “da regalare”. Oggi invece il cioccolato viene consumato pressoché da tutti e in tutte le forme e colori; ad esempio si può trovare anche come “materiale” per trattamenti nelle beauty farm!

Ma come si produce? Dalle fave di cacao si ricavano i semi che vengono fermentati, essiccati, decorticati, tostati e poi attraverso la triturazione, trasformati in pasta di cacao. Con un particolare processo poi viene estratto il burro di cacao che, reimpastato con il cacao secco, dà il cacao solido. Il cioccolato si fonde in bocca perché contiene il burro di cacao che ha la particolarità di fondere all'incirca alla stessa temperatura presente nel cavo orale, quindi la qualità del prodotto la si può capire anche con la velocità con cui si scioglie in bocca!

Come per il vino e l’olio, oggi il marketing sta puntando molto sulla diversificazione del prodotto: si va da quello venezuelano a quello del Madagascar, da quello aromatizzato a quello “puro”. L’evoluzione del prodotto, inoltre, sta riportando il cioccolato alle sue origini: si fa sempre più nero e con percentuali di cacao sempre più alte.

Tra i prodotti al cioccolato italiani, entrati nella storia, non si possono non menzionare la Nutella e l’ovetto Kinder. Nel 1945 entrano in vigore le tasse sul cacao e Pietro Ferrero, nella sua pasticceria di Alba, inventa una pasta solida fatta con il cacao e le nocciole del Piemonte: è la pasta “Giandujot”, un dolce confezionato in pani da tagliare a fette. Nel 1951 questa pasta si fa più cremosa e così arriva nel mercato la “Supercrema”. Ma Michele Ferrero, figlio di Pietro, ancora insoddisfatto del prodotto, incomincia a lavorare per migliorarla: è così che il 20 aprile del ‘64 nasce la Nutella, da Nut, “nocciola”. Il nuovo prodotto verrà venduto in tutto il mondo.

Invece il Kinder Sorpresa, ovvero il “celebre” ovetto Kinder, nasce qualche anno dopo, nel 1974, quando la Ferrero ha l’idea di produrre un nuovo snack al cioccolato ispirato alla Pasqua, contenente quindi, al suo interno, una sorpresa. L’ovetto Kinder in breve tempo conquisterà i bambini (e non solo) di tutto il mondo: fino ad oggi ne sono stati venduti più di 30 miliardi. Le sorprese, ideate da William Salice, ora hanno un mercato: ad esempio, il ''Puffo alle Olimpiadi'' o il ''Puffo sui trampoli'' attualmente valgono 900 euro.

Ma qual è il trend del consumo del cioccolato e come si sviluppa il mercato?
Il sociologo Alessandro Amadori: «Una decina di anni fa sarebbe stato strano sentir parlare di unione tra le spezie da una parte e il cioccolato dall’altra, e invece è quello che è accaduto, per esempio con le praline speziate e aromatizzate che fa la Magnum. Questo è il concetto di contaminazione: cose diverse che si mettono insieme e si sposano, si meticciano, si ibridano e danno luogo a un’innovazione del prodotto. Ecco, il mercato è cambiato secondo queste due linee: il consumatore è diventato sempre più articolato ed esigente e i prodotti diventano sempre più segmentati: prodotti per i bambini, prodotti per gli adolescenti, prodotti per la famiglia, prodotti più per i maschi, e più per le femmine, prodotti che consentano un’attività all’insegna del risparmio calorico, e prodotti invece molto ricchi che hanno come valenza il piacere».

Di conseguenza, per un’azienda che produce praline, anche il nome è fondamentale, ce ne sono di tutti i tipi: quello che comunica eleganza, quello che comunica trasgressione, quello che comunica leggerezza e così via...Di certo quello che comunica “l’amore” per eccellenza è il Bacio Perugina. Il nome “bacio” ha una storia particolare: quando il cioccolatino venne creato all’inizio degli anni ’20, Giovanni Buitoni, uno dei quattro soci fondatori della Perugina, si recò al negozio di Perugia che lo vendeva e quando si accorse che il cioccolatino si chiamava “cazzotto”, perché la forma ricordava quella di un pugno, si indignò molto. Per Buitoni, infatti, non era normale che una persona si recasse la negozio dicendo: “Signorina mi dia qualche cazzotto”, era meglio chiamarlo bacio, e così quel giorno nacque il Bacio Perugina.

Milano e Verona, il panettone vs il pandoro
Alla fine della Prima guerra mondiale Milano vede nascere due grandi aziende: Motta e Alemagna, che fino agli anni ‘60 divideranno ideologicamente i golosi milanesi: due pasticcerie rivali, due salotti rivali, due modi diversi di pensare, e per Maurizio Nichetti anche due diverse tifoserie: “Io non so perché, ma la Motta mi fa venire in mente il Milan e l’Alemagna l’Inter”.

Oggi i due marchi sono stati assorbiti dalla Nestlè, annullando l’antica rivalità, e i due panettoni non vengono più fatti a mano ma esclusivamente con macchinari. Il pandoro, invece, nasce a Verona, non si sa con certezza quale sia l’origine di questo dolce natalizio, ma di certo il nome deriva dal suo tipico colore giallo dovuto all’utilizzo di una grande quantità di uova nell’impasto. Come affermato da Alberto Bauli, Presidente della Bauli s.p.a, la Bauli non ha “inventato il pandoro, noi abbiamo inventato solo il nome. Però noi, negli anni ’60, siamo riusciti a cogliere il desiderio di cambiamento che c’era e di un prodotto locale, tipico di Verona, ne abbiamo fatto un prodotto nazionale”.

La storia dei Bauli inizia nei primi del ‘900 quando Ruggero Bauli, figlio di un artigiano che aveva un laboratorio fuori Verona, decide di fare fortuna in Sud America, dove, dopo essere scampato al naufragio del piroscafo su cui viaggiava, inizia prima a fare il tassista e poi, nel quartiere italiano di Buenos Aires, costruisce la sua piccola fortuna come pasticcere. Nel 1950, consapevole della fortuna che la sua attività poteva offrirgli, intraprende la strada della produzione industriale in Italia. Nasce così la Bauli. Alberto Bauli: «Io non ho mai avuto la vocazione per questo mestiere, però devo dire che questo mestiere droga un po’, nel senso che quando inizi ad avere successo ne vuoi sempre di più, sei sempre portato ad andare avanti e con l’età mi sono appassionato come non avrei mai immaginato. Noi abbiamo avuto per più di vent’anni una comunicazione che è stata sempre la stessa: la gioia del Natale legata al marchio. Non a caso abbiamo un marchio molto grande perché noi abbiamo sempre fatto la comunicazione sul marchio più che sul prodotto».

I biscotti, la dinastia del Mulino
Se per decenni i biscotti sono stati monopolio dell’Inghilterra, con il boom economico l’Italia si presenta al mondo come una nazione moderna: nel ‘61 registra il PIL più alto con l’8,3%. Sono anni in cui con l’evolversi degli usi e dei costumi cambiano anche le abitudini alimentari: il dolce della nonna viene sostituito dalle merendine, i frigoriferi si riempiono di dolci e gelati, e le patatine diventano lo snack da ‘scrocchiare’.

Ma il boom viene seguito da un periodo di stagnazione economica, negli anni ’70: sono molte le categorie lavorative e sociali che scenderanno in piazza contro il governo; la crisi petrolifera che investe il mondo costringe l’Italia all’austerity, alla domenica senza auto. E la crisi investe soprattutto le industrie che così diventano appetibili ai grandi poli alimentari esteri: la Nestlè comprerà Motta, Alemagna e Perugina, mentre Barilla venderà l’azienda all’americana Grace.

Ma a metà degli anni ‘70, proprio alla Barilla si cambierà nuovamente rotta: come ricorda Guido Barilla, presidente della Barilla s.p.a, il fatto fondamentale “fu la decisione del governo di allora di calmierare i prezzi della pasta. Per una società americana avere a che fare con un prodotto con un prezzo fissato dal governo era una follia, per cui la Grace chiese al management Barilla di creare qualcosa, di inventarsi delle cose per uscire da questo sacco in cui si erano cacciati. Una di queste creazioni fu una nuova famiglia di prodotti da forno che potevano essere lanciati e che avevano delle similitudini, delle sinergie di produzione, distribuzione e vendita con i prodotti della pasta. Così nacque Mulino Bianco”. Così alla fine degli anni ’70, Pietro Barilla, incoraggiato dai successi, si ricompra l’azienda e ritorna a dirigerla. Il figlio Guido ricorda: “da quando la vendette nel ‘71 ebbe un solo pensiero: quello di tornare a fare il suo mestiere, per cui quando rientrò, fu un rientro lungo, sofferto, pieno di problemi. Non fu facile, fu per lui il coronamento di un sogno, di un desiderio, soprattutto per l’idea che i suoi figli potessero continuare”.

Il sociologo Armando Amadori: «Nell’immediato dopoguerra i biscotti avevano ancora una connotazione prevalentemente domestica e familiare di prodotto semplice, preparato dai parenti, a forte contenuto funzionale e ancora vicino a una cultura di tipo agricolo. Nel corso degli anni ciò si è modificato, la componente funzionale ha lascito il posto a quella simbolica. Il biscotto è diventato portatore di una serie di valori affettivi ed emozionali. Pensiamo all’operazione Mulino».

Il Mulino Bianco, infatti, farà epoca con una forte comunicazione che suggerisce modelli e stili di vita legati alla pace domestica; le persone a cui si rivolge sono quelle che hanno un nucleo familiare in cui vivere e ritrovarsi, con cui mangiare in intimità. Non a caso il marchio nasce, come afferma Marco Testa, presidente dell’Armando Testa s.p.a, “quando in città si viveva male, quando c’era il terrorismo e il simbolo del Mulino significava il ritorno alla campagna. Una grande immagine di marca è come un sogno che piano piano, alimentato con le campagne pubblicitarie, trasforma il prodotto fino a farlo diventare come se fosse un tuo amico di cui ti fidi, qualcosa di familiare per l’appunto”.

Le caramelle, un prodotto “simpatico”Per Guido Repetto, Amministratore delegato della Elah Dufour, il “problema della caramella è di farsi trovare, una volta trovata infatti la si consuma”. Per spingere le persone a comprare le caramelle, quindi, le aziende nel corso degli anni hanno cercato di fare operazioni di mercato fantasiose: dalla caramella sfusa si è passati allo stick, alla bustina e alle scatoline da collezione. Anche la pubblicità si è mossa attraverso un linguaggio spiritoso, frizzante, che fosse capace di stupire in modo da arrivare agli italiani divertendoli.

La caramella italiana più famosa è forse la Rossana, prodotta dalla Perugina nel 1926. Ma intramontabili sono anche le Pastiglie Leone in commercio dal 1857, le Galatine nate nel 1956 grazie alla Polenghi e ora della Sperlari, la caramella Mou della Elah Dufour, il mitico roll di liquirizia della Haribo, le Morositas, le Pip del fumatore, le Golia, le Alpenliebe della Perfetti e le più recenti Dietorelle.

L’eredità della Seconda guerra mondiale: il Chewingum!
Con la Seconda guerra mondiale arrivano i soldati americani e con loro il chewingum, ovvero la morbida e saporita gomma da masticare. Gli italiani imparano ben presto a consumarne grandi quantità e a copiare gli americani anche nella pubblicità, basti pensare alla serie di spot di Bud Spencer sulle Big Babol. La stessa Perfetti ha venduto il ponte di Brooklyn come simbolo di americanità del prodotto, anche se poi piano piano si è perduto questo tipo di mondo e la comunicazione di Perfetti oggi punta su un’ironia cattiva, dura, e in particolare sull’umorismo all’inglese. Questo perché ogni volta si cerca di inventare nuovi prodotti e comunicazioni per colpire nuovi pubblici.

Il gelato, dalla Coppa del Nonno all’erotismo del Magnum
Non si conosce con esattezza la storia del gelato, di certo era già conosciuto nell’antichità, si può infatti risalire almeno fino a Isacco che offrì ad Abramo latte di capra misto a neve, come riporta la Bibbia: “Mangia e bevi: il sole è ardente e così puoi rinfrescarti”. La leggenda vuole invece che il gelato come "businnes" debba le sue origini al siciliano Francesco Procopio dei Coltelli che, stanco della vita da pescatore, decise di partire in cerca di avventura e nel 1686 aprì un locale a Parigi, il “Café Procope”, dove vendeva anche il gelato artigianale. Il ritrovo diventò ben presto un punto di riferimento per i letterati del tempo, anche nei secoli successivi: da Voltaire a Balzac a Victor Hugo. Tutti a gustare la ricetta originale di Procopio, che era riuscito a trovare il modo di rendere estremamente omogeneo l'insieme di frutta, miele, zucchero e ghiaccio.

Accanto al gelato artigianale, oggi, viene venduto anche quello confezionato. Tra questi le aziende italiane più conosciute sono l’Algida che, nata nel dopoguerra, oggi appartiene alla multinazionale Unilever, e “L’Antica gelateria del Corso” che invece oggi appartiene alla Nestlè. Al primo marchio appartiene il Cremino, il gelato alla panna ricoperto di cacao e sorretto da un bastoncino di legno, mentre al secondo la “Coppa del Nonno”, una crema di latte e caffè creata dalla Motta.

Da allora sono stati inventati gelati industriali di tutti i tipi e per tutti i gusti. Con l’evoluzione del mercato, anche i gelati infatti si sono trasformati, seguendo i gusti dei consumatori e le tendenze del momento. Si sono arricchiti di spezie, creme e golosità, e la pubblicità ne ha assecondato le continue trasformazioni: la peccaminosità dei Magnum, per esempio, viene trasmessa tramite suggestioni erotiche, quali sospiri, sguardi, suoni…                             

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