benvenuti in zucchero d'oro

benvenuti in un mondo di dolcezza di gusto e di gaudio piacere avolti da inebrianti profumi di caffè di frolle e sfoglie appena uscite di prelibate lecornie tra cui cioccolatini , gelati , caffè,salati,dolci benvenuti nel nostro salotto gustate una delle nostre birre speciali una crostata artigianale .
qui tra amici potremo parlare di tutto gustando lecornie e bevendo .

benvenuti in ZUCCHERO D'ORO

domenica 7 novembre 2010

LA STORIA DELLA ZEPPOLA DI SAN GIUSEPPE

LA STORIA DELLA ZEPPOLA DI SAN GIUSEPPE
Nell’antica Roma il 17 marzo si celebravano le Liberalia”, feste in onore delle divinità del vino e del grano. Per omaggiare Bacco e  Sileno, precettore e compagno di gozzoviglie del dio, il vino scorreva a fiumi: per ingraziarsi le divinità del grano si friggevano frittelle di frumento.
A San Giuseppe, che si festeggia solo due giorni dopo (19 marzo), la fanno da protagoniste le discendenti di quelle storiche frittelle: le zeppole di S.Giuseppe.
Nella sua versione attuale, la zeppola di S.Giuseppe nasce come dolce conventuale: secondo alcuni nel convento di S.Gregorio Armeno, secondo altri in quello di Santa Patrizia. Ma c’è anche chi ne attribuisce “l’invenzione” alle monache della Croce di Lucca, o a quelle dello Splendore.
La prima zeppola di San Giuseppe  che sia stata messa su carta risale comunque al 1837, ad opera del celebre gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino.
Il 19 marzo si è sempre festeggiato inoltre la fine dell’inverno (la primavera è ormai nell’aria): durante i cosiddetti “riti di purificazione agraria” vengono accesi in molti paesi del meridione dei grandi falò, e preparate grosse quantità di frittelle.
Un tempo a  S.Giuseppe, patrono dei falegnami,si festeggiava la loro festa e venivano messi in vendita tutti i tipi di giocattoli di legno. Tutti i bambini  ne riceveva in dono  dai genitori qualcuno.
Oggi invece, dal 1968, da quando cioè il giorno di S.Giuseppe è stato decretato festa del Papà, il 19 marzo sono i figli a fare regali ai padri.



powerade by locoloco 

sabato 6 novembre 2010

origine della zeppola


La zeppola: gioia del palato e curiosità della lingua
Sulla bontà della zeppola di San Giuseppe l’accordo è completo. Sull’origine della parola “zeppola” i pareri sono invece discordanti. Ecco alcuni degli etimi più accreditati:
- zeppa: dal latino “cippus”, pezzetto di legno  in grado di risolvere piccoli problemi di slivellamento. La zeppa è piccola, e per questo somiglia a quel “pizzico” di pasta lievitata che, messo a friggere nell’olio bollente, si gonfia, fino a dar vita alla classica “pastacrisciuta”. La zeppola si fa infatti come la pastacrisciuta, ma è dolce: e come lei, a Napoli  ha un’origine “stradale”.
- serpula(m), dal latino serpe: la  zeppola (quella antica,di  San Giuseppe) ha la forma di una serpe acciambellata.
- cymbala(m), imbarcazione fluviale dal fondo piatto e l’estremità arrotondata, dunque a forma di ciambella. Col tempo, attraverso una serie di modificazioni linguistiche, cymbala è diventato “zippula”, da cui zeppola.
- Saeptula, da saepio, cingere. Questo termine designava gli oggetti di forma rotonda in genere.
- Zi’Paolo: il nome  del friggitore napoletano,presunto inventore della zeppola.
Per concludere, va ricordato che “zeppola” è  anche uno dei nomi scherzosi che i napoletani danno all’ernia inguinale, insieme aguallera, paposcia, ‘ntoscia, mellunciello.
E’ peraltro probabile che la zeppola/ernia  non sia la zeppola di   San Giuseppe bensì la “pastacrisciuta”, quell’impasto di farina, acqua e lievito che, messo a friggere nell’olio bollente, si gonfia, rassomigliando ad una rotondeggiante ernia inguinale.


powerade by locoloco

LA LEGGENDA DELLE ZEPPOLE DI SAN GIUSEPPE

LA LEGGENDA DELLE ZEPPOLE DI SAN GIUSEPPE
La bottega era in fondo alla via,
tutti quanti sapevano dove.
Fa  Giuseppe: “Adorata Maria,
molto presto sarà il diciannove;
 
vola il tempo, a gran passi s’appresta.
Invitiamo qui a casa gli amici.
E’ il mio nome, lo sai; la mia festa.
Che ti pare, Marì? Che ne dici?”
 
Alza gli occhi Maria dal ricamo,
risplendenti di grazia divina.
“Peppe mio, tu lo sai quanto t’amo,
però sono un disastro, in cucina.
 
Ti ricordi dell’ultima volta?
Mi ci sono davvero impegnata,
ma mi venne uno schifo, la torta,
e alla fine l’abbiamo buttata.
 
Ma stavolta andrà meglio, lo sento,
lo vedrai: non ti dico di più.
Voglio farti davvero contento,
con il nostro figliolo Gesù!”
 
E così ci provò. Poveretta,
ben tre giorni passò a cucinare,
ma non era una cuoca provetta
(era molto più brava a pregare).
 
Questa volta riuscì! Nella stanza
in cui stava la Sacra Famiglia
si diffuse una dolce fragranza.
Che languore! Che gran meraviglia!
  
Su un vassoio fan mostra di sé
(beh, Maria, certe volte sei  in vena!)
zeppoloni di pasta bignè
ben guarniti di crema e amarena.
 
San Giuseppe però storce il naso.
“Moglie mia, chi può averti aiutato?
Non mi dire che è frutto del caso;
tu lo sai, la menzogna è peccato.
 
E non fare quel viso contrito!
Dai, sorridi, mia cara Maria:
l’aiutante, l’ho bell’e capito,
si nasconde costì, in casa mia.
 
Vieni qua, figlio mio, fatti avanti.
I miracoli son limitati,
vanno usati per cose importanti;
se li impieghi così, son sprecati!”
 
Ma Gesù, ch’era ancora un bambino
lo guardò con grandissimo amore,
e gli disse: “Mio caro papino,
stai facendo – perdona – un errore:
 
questa zeppola dolce, squisita
da gustare in un giorno di festa
rende un poco migliore la vita:
la magia  quotidiana è anche questa.
 
E’ un miracolo lieve, leggero;
una semplice, morbida  cosa,
che anche al giorno più cupo e nero
dà una piccola mano di rosa”.
 
Il papà sentì in gola un magone.
“Caro figlio, non critico più.
Su ‘sti zeppole hai proprio ragione:
io so’ Santo, ma tu sì Gesù!” 



powerade by locoloco

curiosità sulle zeppole

 La zeppola di San Giuseppe non è una zeppola come le altre. E' forse la più conosciuta ma anche l'ultima arrivata. Prima c'erano altri tre tipi di zeppole: la classica “zeppola”, uno dei dolci più antichi che si conoscono, la zeppola "graffa" e la "zeppola pastacrisiuta".
La zeppola classica: la più antica, a forma di ciambella, si fa con semplicità, impastando della farina passata al setaccio con acqua e sale. Dall’impasto, liscio e morbido, si ricavano delle ciambelle, che vengono fritte nell’olio caldo (ma non bollente), quindi asciugate e spolverate con zucchero e/o cannella. Prima dell’avvento dello zucchero, al suo posto si usava il miele: prima dell’olio di oliva c’era lo strutto.





La Graffa: identica nella forma alla zeppola classica: a forma di ciam bella ricoperta di zucchero e cannella. Si differenzia per il tipo di impasto che prevede anche le patate per una maggiore morbidezza. Deve il suo nome al Krapfen, dolce austriaco di forma tonda ma non a ciambella e diversamente dalla Graffa, ripieno di crema. Il nome del Krapfen deriva da Veronica Krapf, fornaia austriaca che l'ha inventato





La zeppola di San Giuseppe è più recente e di tutt’altra pasta: quella degli choux (a Napoli “sciù”), detti anche bignè, che però vengono cotti al forno.
Per motivi dietetici, oggi anche la zeppola di San Giuseppe viene offerta nella variante “al forno”: quella vera però rimane quella fritta.
Nel settecento, il 19 marzo i friggitori, in omaggio a S.Giuseppe, loro santo patrono oltre che dei falegnami, allestivano dei banchetti davanti alle loro botteghe, per friggere e servire le zeppole direttamente in strada, in tempo reale.
Nell’imminenza del Santo, la zeppola di S.Giuseppe a Napoli la si trova ovunque. Ma è ormai facile trovarla quasi tutto l’anno, specialmente nel formato “mignon”. Al quale tanti napoletani sono stati costretti ad assoggettarsi, in nome di un pragmatico e salutistico “di meno, ma per più tempo”.Col tempo allo zucchero e alla cannella si è sostituita la crema pasticcera e l’amarena come guarnizione.

La zeppola pastacrisciuta è una zeppola salata. Omonima ma diversa anche nella forma dalle altre zeppole. E' come una pallina di pochi cm.  Si ottiene prendendo un pizzico di “pasta lievitata cioè cresciuta” gettato nell’olio bollente. Ancora oggi questo tipo di zeppola si acquista nelle tante friggitorie napoletane insieme ai panzarotti (crocchè piccoli e senza ripieno) e si mangia in piedi ancora bollente. Esempio di un fastfood ante litteram. E’a questa zeppola che si fa riferimento per indicare un difetto di pronuncia che riguarda la esse e la zeta. Non tanto per l’impossibilità di dire correttamente”zeppola” ma perché si parla come se si avesse “una zeppola in bocca”,caldissima. E la zeppola pastacrisciuta si mangia infatti bollente. 

Calorie della zeppola
L'apporto calorico della zeppola è notevole per la presenza di dosi elevate di grassi (circa il 25%), di zuccheri e carboidrati complessi (circa il 40%): si arriva quasi a 400 cal. per 100 gr. Non è adatto per le diete dimagranti, e va dosato per i diabetici. Ma può essere assunto occasionalmente per es. il 19 marzo. In molte pasticcerie, onde evitare i già grossi ed irreparabili attentati alle diete, vengono anche proposte anzichè fritte, al forno.


100 gr. di zeppole di San Giuseppe:
395 calorie
una zeppola di san Giuseppe di misura media (50 gr.):
147 calorie




 powerade by locoloco

zeppole

‘E canuscite ‘e zeppule?
Si pruvenite ‘a Napule
‘a cosa è assaje  probabile.
P’e fà  nunn’è difficile:
acqua e farina, impastale,
e po’ miettele a frijere
pe dint’all’uoglio cavere.
Al finale, c’ea stennere
nu’ velo fatt’e zucchere.
Si nun ce crire, pruovale:
par’o magnà dell’Angele!
E’ vero o no; sti zeppule
nun songo irresistibile?

 

Non conosci le zeppole?
Se non vieni da Napoli
la cosa è assai probabile.
Preparale, ch’è facile:
procurati – è fattibile –
farina ed acqua. Impastale,
e poi nell’olio friggile.
Di zucchero cospargile:
ti mangi anche le briciole!
Se non ci credi, provale,
e poi dirai: ‘ste zeppole,
che gusto irresistibile!



powerade by locoloco

STORIA DELLA PASTIERA

 Si racconta che Maria Teresa D'Austria, consorte del re Ferdinando II° di Borbone, soprannominata dai soldati "la Regina che non sorride mai", cedendo alle insistenze del marito buontempone, famoso per la sua ghiottoneria, accondiscese ad assaggiare una fetta di Pastiera e non poté far a meno di sorridere, compiaciuta alla bonaria canzonatura del Re che sottolineava la sua evidente soddisfazione, nel gustare la specialità napoletana. Pare che a questo punto il Re esclamasse: "Per far sorridere mia moglie ci voleva la Pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo".

 
Maria Teresa D'Austria
STORIA DELLA PASTIERA IN RIMA
A Napule regnava Ferdinando
Ca passava e' jurnate zompettiando;
Mentr' invece a' mugliera, 'Onna Teresa,
Steva sempe arraggiata. A' faccia appesa
O' musso luongo, nun redeva maje,
Comm'avess passate tanta guaje.
Nù bellu juorno Amelia, a' cammeriera
Le dicette: "Maestà, chest'è a' Pastiera.
Piace e' femmene, all'uommene e e'creature:
Uova, ricotta, grano, e acqua re ciure,
'Mpastata insieme o' zucchero e a' farina
A può purtà nnanz o'Rre: e pur' a Rigina".
Maria Teresa facett a' faccia brutta:
Mastecanno, riceva: "E' o'Paraviso!"
E le scappava pure o' pizz'a riso.
Allora o' Rre dicette: "E che marina!
Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?
Moglie mia, vien'accà, damme n'abbraccio!
Chistu dolce te piace? E mò c'o saccio
Ordino al cuoco che, a partir d'adesso,
Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.
Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;
pe te fà ridere adda passà n'at' anno!"



powerade by locoloco 

LA LEGGENDA DELLA PASTIERA

Ancora più leggendaria e mitologica la storia della sirena Partenope che  incantata dalla bellezza del golfo, disteso tra Posillipo ed il Vesuvio, avesse fissato lì la sua dimora. Ogni primavera la bella sirena emergeva dalle acque per salutare le genti felici che popolavano il golfo, allietandole con canti d'amore e di gioia.
   Una volta la sua voce fu così melodiosa e soave che tutti gli abitanti ne rimasero affascinati e rapiti: accorsero verso il mare commossi dalla dolcezza del canto e delle parole d'amore che la sirena aveva loro dedicato. Per ringraziarla di un così grande diletto, decisero di offrirle quanto di più prezioso avessero.
   Sette fra le più belle fanciulle dei villaggi furono incaricate di consegnare i doni alla bella Partenope: la farina, forza e ricchezza della campagna; la ricotta, omaggio di pastori e pecorelle; le uova, simbolo della vita che sempre si rinnova; il grano tenero, bollito nel latte, a prova dei due regni della natura; l'acqua di fiori d'arancio, perché anche i profumi della terra solevano rendere omaggio; le spezie, in rappresentanza dei popoli più lontani del mondo; infine lo zucchero, per esprimere l'ineffabile dolcezza profusa dal canto di Partenope in cielo, in terra, ed in tutto l'universo.
    La sirena, felice per tanti doni, si inabissò per fare ritorno alla sua dimora cristallina e depose le offerte preziose ai piedi degli dei. Questi, inebriati anche essi dal soavissimo canto, riunirono e mescolarono con arti divine tutti gli ingredienti, trasformandoli nella prima Pastiera che superava in dolcezza il canto della stessa sirena.


powerade by locoloco

ORIGINI DELLA PASTIERA

La pastiera, forse, sia pure in forma rudimentale, accompagnò le feste pagane celebranti il ritorno della primavera, durante le quali le sacerdotesse di Cerere portavano in processione l'uovo, simbolo di vita nascente. Per il grano o il farro, misto alla morbida crema di ricotta, potrebbe derivare dal pane di farro delle nozze romane, dette appunto " confarratio ". Un'altra ipotesi la fa risalire alle focacce rituali che si diffusero all'epoca di Costantino il Grande, derivate dall'offerta di latte e miele, che i catecumeni ricevevano nella sacra notte di Pasqua al termine della cerimonia battesimale.
      Nell'attuale versione, fu inventata probabilmente nella pace segreta di un monastero dimenticato napoletano. Un'ignota suora volle che in quel dolce, simbologia della Resurrezione, si unisse il profumo dei fiori dell'arancio del giardino conventuale. Alla bianca ricotta mescolò una manciata di grano, che, sepolto nella bruna terra, germoglia e risorge splendente come oro, aggiunse poi le uova, simbolo di nuova vita, l'acqua di mille fiori odorosa come la prima vera, il cedro e le aromatiche spezie venute dall'Asia.
      È certo che le suore dell'antichissimo convento di San Gregorio Armeno erano reputate maestre nella complessa manipolazione della pastiera, e nel periodo pasquale ne confezionavano in gran numero per le mense delle dimore patrizie e della ricca borghesia.
      Ogni brava massaia napoletana si ritiene detentrice dell'autentica, o della migliore, ricetta della pastiera. Ci sono, diciamo, due scuole: la più antica insegna a mescolare alla ricotta semplici uova sbattute; la seconda, decisamente innovatrice, raccomanda di mescolarvi una densa crema pasticciera che la rende più leggera e morbida, innovazione dovuta al dolciere-lattaio Starace con bottega in un angolo della Piazza Municipio non più esistente.
      La pastiera va confezionata con un certo anticipo, non oltre il Giovedì o il Venerdì Santo, per dare agio a tutti gli aromi di cui è intrisa di bene amaIgamarsi in un unico e inconfondibile sapore.   Appositi "ruoti" di ferro stagnato sono destinati a contenere la pastiera, che in essi viene venduta e anche servita, poiché è assai fragile e a sformarla si rischia di spappolarla irrimediabilmente.



pawerade by locoloco

pastiera napoletana

 
"Currite, giuvinò! Ce stà 'a pastiera!"
E' nu sciore ca sboccia a primmavera,
e con inimitabile fragranza
soddisfa primm 'o naso,e dopp'a panza.
Pasqua senza pastiera niente vale:
è 'a Vigilia senz'albero 'e Natale,
è comm 'o Ferragosto senza sole.
Guagliò,chest'è 'a pastiera.Chi ne vuole?
Ll' ingrediente so' buone e genuine:
ova,ricotta,zucchero e farina
(e' o ggrano ca mmiscato all'acqua e' fiori
arricchisce e moltiplica i sapori).
'E ttruove facilmente a tutte parte:
ma quanno i' à fà l'imposto,ce vò ll'arte!
A Napule Partenope,'a sirena,
c'a pastiera faceva pranzo e cena.
Il suo grande segreto 'o ssai qual'è?
Stu dolce pò ghì pure annanz' o Rre.
E difatti ce jette. Alludo a quando
il grande Re Borbone Ferdinando
fece nu' monumento alla pastiera,
perchè facette ridere 'a mugliera.
Mò tiene voglia e ne pruvà na' fetta?
Fattèlla: ccà ce stà pur' a ricetta.
A può truvà muovendo un solo dito:
te serve pe cliccà ncopp ' a stu sito.
Màngiat sta pastiera,e ncopp' a posta
dimme cumm'era: aspetto  na' risposta.
Che sarà certamente"Oj mamma mia!
Chest nunn'è nu dolce: è na' poesia!"

varianti delle sfogliatelle e calorie

SFOGLIATELLA RICCIA
La riccia di forma triangolare è croccantissima di , ed è formata da  pasta sfoglia sovrapposta a strati fittissimi, e con un caratteristico ripieno di semola, ricotta, canditi, latte, uova e zucchero.

SFOGLIATELLA FROLLA
La frolla è di forma tonda realizzata con una pasta frolla soffice e deliziosa ed ha lo stesso ripieno identico della sfogliatella riccia (semola, latte, ricotta, canditi, uova e zucchero).
SFOGLIATELLA A CODA D'ARAGOSTA
deriva  dalla Santa Rosa ed è come una sfogliatella riccia molto più grande e allungata, che come forma ricorda la coda di una aragosta, farcita però di panna o crema chantilly o cioccolata.
VALORI NUTRIZIONALI

Per 100g:
lipidi 11.11 g
glucidi 58.2 g
protidi 7.21 g
calorie 430 Kcal


powerade by locoloco


LA STORIA DELLA SFOGLIATELLA

LA STORIA DELLA SFOGLIATELLA  
La storia non è quasi mai dolce. Ma ogni dolce ha la sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata.
La storia della sfogliatella appartiene alla prima categoria. Di questo dolce tipicamente partenopeo si può tracciare una precisa topomonastica. Avete letto bene; topomonastica, perché il topos della sfogliatella è un monastero. Quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel sacro luogo si pregava tanto, ma, trattandosi di un  convento di clausura, non si poteva andare da nessuna parte, e quindi  di tempo libero ce n’era in abbondanza.  Una parte di esso veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, così da ridurre i contatti con l’esterno, e amplificare quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menu era uguale per tutte (ci mancherebbe): soltanto le monache anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di nutrienti minestrine.
Un giorno di 400 anni fa (siamo nel 600) la suora addetta alla cucina si accorse che era avanzata un po’ di semola cotta nel latte. Buttarla, non se ne parlava proprio. Fu così che, ispirata dall’Alto, la cuoca ci buttò dentro un po’ di frutta secca, di zucchero e di liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, si disse. Ma cosa poteva metterci sopra e sotto?
Preparò allora due sfoglie di pasta aggiungendovi strutto e vino bianco, e ci sistemò in mezzo il ripieno. Poi, siccome anche in un convento l’occhio vuole la sua parte, sollevò un po’ la sfoglia superiore, dandole la forma di  un cappuccio di monaco, e infornò il tutto. La Madre Superiora sulle prime fiutò il dolce appena sfornato, e subito dopo fiutò l’affare; con quest’invenzione benedetta (e ancor meglio fatta) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento.   La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce veniva messo sulla classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero  messo, in entrata, qualche moneta. A questo dolce venne dato, inevitabilmente, il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i doni di Dio, la Santarosa  non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. La divina Provvidenza è un po’ come la dieta: funziona, ma non bisogna darle fretta. La santarosa ci mise circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui arrivò ai primi dell’800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro. I napoletani staranno protestando: ma no!, Pintauro è un pasticciere, e non un oste. Invece  nei giorni di cui stiamo parlando era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte a Santa Brigida. Che rimase un’osteria   fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, per una via che non è mai stata chiarita, della ricetta originale della santarosa. Quell’anno ci furono due conversioni: Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertì in un laboratorio dolciario.
Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò, eliminando la crema pasticciera e l’amarena, e sopprimendo la protuberanza superiore a cappuccio di monaco. Era nata la sfogliatella. La sua varietà più famosa, la cosiddetta “riccia”, mantiene da allora la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò (con una sola c, da non confondersi con il roccocò, altro famoso dolce napoletano). Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza, la bottega di Pintauro sta sempre là: ha cambiato gestione, ma non il nome e l’insegna, e nemmeno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni fa.
Al viaggiatore che arriva alla stazione di  Napoli, o che abbia almeno venti minuti fra un treno  e l’altro, si consiglia di fare un salto da Attanasio, a Vico Ferrovia, che sforna sfogliatelle calde a getto continuo. Sulla sua “puteca” c’è scritto: “Napule tre cose tene belle: ‘o mare, ‘o Vesuvio, e ‘e sfugliatelle”.  Un ‘avvertenza: storditi dal profumo della sfogliatella appena sfornata, ormai nelle vostre mani, evitate di addentarla voracemente. La caratteristica sfoglia lamellare è calda, ma il ripieno di ricotta è rovente.

Tra Amalfi e Positano,mmiez’e sciure
nce steva nu convent’e clausura.
Madre Clotilde, suora cuciniera
pregava d’a matina fin’a sera;
ma quanno propio lle veneva‘a voglia
priparava doie strat’e pasta sfoglia.
Uno ‘o metteva ncoppa,e l’ato a sotta,
e po’ lle mbuttunava c’a ricotta,
cu ll’ove, c’a vaniglia e ch’e scurzette.
Eh, tutta chesta robba nce mettette!
Stu dolce era na’ cosa favolosa:
o mettetteno nomme santarosa,  
e ‘o vennettene a tutte’e cuntadine
ca zappavan’a terra llà vicine.
A gente ne parlava, e chiane chiane
giungett’e’ recchie d’e napulitane.
Pintauro, ca faceva ‘o cantiniere,
p’ammore sujo fernette pasticciere.
A Toledo  nascette ‘a sfogliatella:
senz’amarena era chiù bona e bella!
‘E sfogliatelle frolle, o chelle ricce
da Attanasio, Pintauro o Caflisce,
addò t’e magne, fanno arrecrià.
So’  sempe na delizia, na bontà! 

Sfogliatella

So’ doje sore: ‘a riccia e a frolla.
Miez’a strada, fann’a folla.
Chella riccia è chiù sciarmante:
veste d’oro, ed è croccante,
caura, doce e profumata.
L’ata, 'a frolla, è na pupata.
E’ chiù tonna,  e chiù modesta,
ma si’ a guarde, è già na festa!
Quann’e ncontre ncopp’o corso
t’e vulesse magnà a muorze.
E  sti ssore accussì belle
sai chi so’? So’  ‘e sfugliatelle!


 

CALORIE BABA' AL RUM

CALORIE  BABA' AL RUM 252 PER 100 GR.
Calorie kcal : 252
proteine gr.: 4,6
grassi gr.: 9
glucidi gr.: 31p

CURIOSITA' SUL BABA'

CURIOSITA' SUL BABA'
"Si nu’ babà" diciamo a qualcuno quando vogliamo trasmettergli tutto il nostro carnale sentimento, tutta la nostra stima e affetto rinnovati, ad una persona già conosciuta, ma evidentemente non ancora del tutto apprezzata per quello che realmente essa può significare, ad una persona che continua a sorprenderci benevolmente per le sue capacità e le sue doti nascoste.
Paradossali, le infinite variazioni per un dolce che fa della semplicità la sua caratteristica più peculiare. Il babà, infatti, è equilibrio. La sua consistenza è il suo vero segreto. Non inganni il suo apparire, il colore bruno della sua superficie, è solo una piccola pellicola indispensabile per contenere un carattere così delicato. Esprime saggezza, libertà, non vana sete di apparire, perché consapevole del proprio valore. Può cimentarsi con qualunque gusto, attraversare tutti gli ambienti possibili, mostrando garbo ed eleganza nei sapori,  inebriando con il profumo di sé, della bagna al rum, autentica emozione del cuore di chi lo incontra. La sua pasta, infatti, è solo appena dolce, la vera dolcezza viene dal rum che rappresenta la sua capacità insaziabile di ricerca e di conoscenza, il sublimarsi continuo del pensiero.
Bontà, equilibrio e discrezione. Perciò diffidate dai falsi! Da quelli troppo poco bagnati, quasi asciutti, o da quelli troppo bagnati, inondati di rum. Ma soprattutto da quelli con crema e con panna. Un vero e proprio sacrilegio, una corruzione imperdonabile per un dolce dal carattere così mite e così autentico. La crema, con addirittura talvolta la ciliegia candita o con le fragoline, così pretenziosamente volgare, inopportuna  e insopportabile accostata ad una figura così nobile ed elegante. La panna, spremuta spesso in un taglio, una ferita sarebbe meglio dire, aggiunta più per nascondere qualcosa, forse un babà un po’ bruciato, che per sostanza. Una presenza lattiginosa che nulla ha da condividere con la bagna del rum. Vero è che ognuno dei tipi ha qualcosa del babà originale, ma il falso babà lo potrete bagnare quanto volete, non tornerà vero; quello alla crema o alla panna, anche se lo libererete di esse, non sarà altro che un babà alla crema o alla panna senza la crema o panna. Non sarà mai più un babà originale. Il vero babà non avrà mai fatto niente per attirare la vostra 
 attenzione. Pensateci.



powerade by locoloco

LA STORIA DEL BABA'

LA STORIA DEL BABA'
“C’era una volta....un Re, diranno i miei piccoli amici”. Così comincia Pinocchio, una delle favole più belle della storia.
Nella storia del babà il Re c’è davvero, e non è un personaggio fiabesco: è nientedimeno che Stanislao Leszczinski, re di Polonia dal 1704 al 1735.
Stanislao era diventato re a meno di trent’anni, grazie all’appoggio di Carlo XII di Svezia. Qualche anno dopo (era il 1735) Pietro il Grande, Zar di tutte le Russie, si dimostrò molto più grande del re svedese e di quello polacco:  insieme ai suoi alleati, la Prussia e l’Austria, mosse loro guerra, e li sconfisse. Stanislao però non era uno qualunque. Era il suocero di Luigi XV di Francia, che aveva sposato sua figlia Maria. Per questo motivo, dopo averlo detronizzato, come contentino  gli diedero il Ducato di Lorena.  Lui non ne fu troppo contento, ma si adeguò.
Privato del Regno di Polonia, e  costretto in un quel piccolo regno privato, Stani si annoiava. Siccome c’aveva un sacco di tempo libero, si circondò di  filosofi e scienziati, e si mise a studiare. Studia che ti studia, finì per mettere a punto un programma di collaborazione internazionale e di integrazione europea: la prima versione della UE, a memoria d’uomo.
Sulla carta, il progetto era splendido, ma l’ex monarca sapeva di non avere alcuna possibilità di attuarlo: era senza corona, e quindi senza alcun peso.
Questo stato di cose gli dava molta amarezza. Per combatterla, Stanislao aveva bisogno tutti i giorni di qualcosa di dolce. Accontentarlo,però, non era facile: i pasticcieri lorenesi dovevano lambiccarsi continuamente il cervello  per preparargli qualcosa di nuovo.
Ma di fantasia ne avevano pochina, e così due giorni su tre al povero ex sovrano veniva servito il  “kugelhupf”, un  dolce tipico di quel territorio, fatto di con farina finissima, burro, zucchero, uova e uva sultanina. All’impasto veniva aggiunto lievito di birra, fino ad ottenere una pasta soffice e spugnosa. Stanislao il  kugelhupf non lo poteva soffrire. Non che fosse cattivo: ma era, come dire, un po’ fesso, privo di personalità. E poi era asciutto, ma così asciutto che si appiccicava al palato. E non gli piacque nemmeno quando fu bagnato con una salsa di vino Madera, zucchero e spezie.
Spesso  non l'assaggiava nemmeno.
Poi tornava ai suoi progetti per un mondo più giusto, senza vincitori né vinti (così quei maledetti che l’avevano sbattuto laggiù sarebbero stati serviti).
Insomma, Stanislao  Leszczinski viveva in una prigione: dorata, ma pur sempre  una prigione. E’ comprensibile perciò che ogni tanto, per non pensare al passato, che gli faceva tristezza, e al futuro, che gli faceva paura, alzasse un po’ il gomito.
Fedele ai suoi ideali di uguaglianza, beveva di tutto: a cominciare dai vini della  Mosa e della Mosella, orgoglio della Lorena. Ma poichè da quelle parti gli inverni sono lunghi, freddi  e nevosi, spesso gli ci voleva qualcosa di più forte. E lui l’aveva trovato: era il rhum, un’acquavite derivata dalla canna da zucchero, importata dalle Antille. Era buono, era tosto, e quindi era proprio quel che ci voleva.
Un giorno Stanislao, che aveva già ingollato  vari bicchierini di rhum, si accorse di avere  una gran  voglia di un buon dolce. Di qualcosa di veramente speciale. Perciò, quando il suo maggiordomo gli piazzò sotto il naso l’ennesima porzione di kugelhupf, l’allontanò rabbioso.Poi impadronitosi del piatto che il servitore teneva timoroso tra le mani, lo scagliò sulla tavola, lontano da sé.
Il piatto terminò la sua corsa contro la bottiglia di rhum posata lì accanto, e la rovesciò. Prima che qualcuno potesse intervenire a risollevarla, il liquore aveva completamente inzuppato il  kugelhupf.
Sotto gli occhi ancora corrucciati di Stanislao ebbe luogo una straordinaria  metamorfosi: la pasta lievitata dell’insipido dolce lorenese, per solito di colore giallastro, assunse rapidamente una tonalità calda, ambrata, e un profumo inebriante comincò a diffondersi  intorno.
Nella sala da pranzo c’era un silenzio che si sarebbe potuto tagliare col coltello. Invece Stanislao, sotto lo sguardo stupefatto della servitù, sollevò  il cucchiaino d’oro (la mano gli tremava un po’), prelevò qualche frammento di questa Chimera: di quest’ibrido che si era materializzato sotto i suoi occhi, e lo portò alla bocca.
Quel che provò lo sappiamo. Lo abbiamo provato tutti la prima volta che lo abbiamo assaggiato il babà. Perché nessuno può dimenticare il primo istante in cui si è trovato faccia a faccia con Lui  (nessuno, tranne  i napoletani: in genere, per loro questo momento arriva  quando sono troppo piccoli per ricordarsene).
Fu questa, una giornata memorabile per l’umanità.
All’invenzione casuale del dolce  inventato dal Re polacco tra le brume della Lorena: mancava il nome.Fu sempre  Re Stanislao a dedicare questa sua creazione ad Alì Babà, protagonista del celebre racconto tratto da “ Le Mille e Una Notte”. Libro che il sovrano amava leggere e rileggere nel suo lungo soggiorno a Luneville . 
Il babà da Luneville arrivò presto a Parigi,alla pasticceria Sthorer. Qui in tanti lo conobbero e lo apprezzarono. A portarlo successivamente a Napoli,dove assunse la forma definitiva assai caratteristica (quella di un fungo) furono i “monsù”,chef che prestavano servizio presso le nobili famiglie napoletane. 
 E da allora il babà elesse Napoli a proprio domicilio stabile. Un’ultima considerazione: nella cucina napoletana esiste più d’un dolce che – per il suo sapore – “po’ ghì annanz’o Rre”: può essere presentato al re. Ma il babà è l’unico dolce che dinanzi al Re non c’è andato: c’è nato.
P.S.:  I progetti utopistici di Re Stanislao si realizzarono in pieno: di fronte a una guantiera di babà tutte le controversie si appianano, e  la Pace e la Concordia regnano sovrane.
Un grande sapore ha sempre la meglio sui dissapori: grandi o piccoli che siano.   


powerade by locoloco  

la storia della pasticceria secondo la rai

Il dolce: da prodotto per un’élite alla produzione industriale
Siamo nella seconda metà ’800 e nell’Italia appena unificata, a causa di problemi economici, viene razionato il cacao. È in seguito a questo provvedimento che, con un guizzo di inventiva, Pier Paul Caffarel fa di necessità virtù: mescolando le nocciole al cioccolato dà vita, nel 1865, al Gianduiotto, il cioccolatino che, antesignano del made in Italy, conquisterà il mondo. In Italia la grande avventura industriale inizierà solo negli anni ’60, in seguito al boom economico: nascono i marchi e la pubblicità si fa anima del commercio. Ma il mercato italiano è ancora caratterizzato esclusivamente dai beni di lusso: i dolci sono prodotti per le grandi occasioni e i biscotti monopolio degli Inglesi. In un Paese di acciaierie e legato alle antiche tradizioni, quindi, le aziende iniziano a esportare e a conquistare il mercato internazionale: è il caso del laboratorio dei Vicenzi di Verona che, nel 1979, ottengono, come secondi classificati, il “Premio Export” nel settore dolciario.

Intanto le industrie dolciarie iniziano a impiegare le donne per la loro precisione nel confezionamento: l’affrancamento economico della donna, quindi, comincia proprio con i dolci. Ad esempio negli anni ‘30 alla Perugina, erano stati già organizzati reparti che prevedevano le nursery. In realtà si trattava ancora di esperienze limitate, e solo nel secondo dopoguerra infatti con la modernizzazione del Paese, le donne entreranno a far parte integrale dell’industria dolciaria.

I dolci però sono ancora preparati esclusivamente in casa e legati al calendario liturgico: ci sono quelli di Natale, quelli di Pasqua e quelli dei Santi patroni. Secondo il calendario agricolo, per la trebbiatura si preparano i ciambelloni da intingere nel vino, e per la vendemmia le focacce con l’uva. Anche per celebrare gli eventi familiari ci sono dei dolciumi specifici: alle nozze si offrono gli zuccherini, mentre ai funerali s’impastano biscotti con farina, miele e bianco d’uovo. I cicli stagionali influenzano gli ingredienti delle ricette: in primavera si usano latticini e formaggi freschi; in estate frutta e miele; in autunno mosto, castagne, noci e nocciole; in inverno frutta secca e candita.

La tradizione della pasticceria italiana, oltre al calendario, è sempre stata determinata da una combinazione di fattori climatici e storici. Al Nord prevale l’uso del latte, della panna e del burro, l’impiego di mele, frutti di bosco, nocciole e castagne, e di grano saraceno e segale in ambito alpino, con i distillati e i liquori ad arricchire il tutto. Al Centro Sud sono grandi protagonisti la ricotta e il mosto, le mandorle e i fichi, i pistacchi e la frutta candita, il grano e l’olio d’oliva.

L’Italia comincia a passare dal consumo casalingo, in cui le mamme fanno le merendine in casa, a un mondo industriale in cui i prodotti posso essere comprati, solo quando il Paese si industrializza durante il boom economico. Questi nuovi prodotti vengono lanciati con il carosello e spesso vengono sponsorizzati da grandi attori come Gassman, Corrado, Walter Chiari, De Sica…

Con il tempo l’evoluzione della comunicazione ha cercato di trovare nuovi spazi, per cui la merenda tradizionale data ai bambini è stata affiancata anche da prodotti per gli adulti che, quindi, si sono diversificati: da quello che dà un’energia in più, a quello ipocalorico, a quello spiritoso.

Il cioccolato
Considerato dai più una “piccola meravigliosa droga naturale”, nonché “il cibo degli Dei” per gli Aztechi, il cioccolato arriva in Europa solo nel ‘500, e inizialmente viene consumato prevalentemente liquido. Servito quindi come bevanda, il nuovo nettare viene ben presto “modificato” dagli Europei, in particolar modo dagli ordini monastici spagnoli, depositari di una lunga tradizione di miscele e infusi, che ci aggiungono la vaniglia e lo zucchero per correggerne la naturale amarezza.

Per tutto il '500 il cioccolato rimane un'esclusiva della Spagna, che ne incrementa le coltivazioni in Sud America, e solo nel '600, attraverso la Toscana, il cacao arriva in Italia per merito del commerciante di Firenze Antonio Carletti. Il resto d’Europa conoscerà il cioccolato solo nel 1615. In Italia la capitale del cioccolato è Torino. È qui infatti che alla fine del XVIII secolo viene creato da Doret il primo cioccolatino in forma solida, come lo mangiamo oggi, ed è sempre qui che Caffarel nel 1826 inizia la produzione di cioccolato in grandi quantità grazie a un’innovativa macchina capace di produrre oltre 300 kg di cioccolato al giorno.

La storia del cioccolato è complessa, inizialmente era una bevanda utilizzata esclusivamente dai ricchi e dai monaci, tanto che per diversi decenni vi fu la questione se bisognava interromperne il consumo durante il digiuno oppure no, finché Papa Pio V, vi pose fine affermando che il vino e il cioccolato, in quanto bevande, non lo interrompevano. Solo negli anni ’70 entra finalmente nelle case di ogni italiano, ma si tratta ancora di un prodotto speciale “da regalare”. Oggi invece il cioccolato viene consumato pressoché da tutti e in tutte le forme e colori; ad esempio si può trovare anche come “materiale” per trattamenti nelle beauty farm!

Ma come si produce? Dalle fave di cacao si ricavano i semi che vengono fermentati, essiccati, decorticati, tostati e poi attraverso la triturazione, trasformati in pasta di cacao. Con un particolare processo poi viene estratto il burro di cacao che, reimpastato con il cacao secco, dà il cacao solido. Il cioccolato si fonde in bocca perché contiene il burro di cacao che ha la particolarità di fondere all'incirca alla stessa temperatura presente nel cavo orale, quindi la qualità del prodotto la si può capire anche con la velocità con cui si scioglie in bocca!

Come per il vino e l’olio, oggi il marketing sta puntando molto sulla diversificazione del prodotto: si va da quello venezuelano a quello del Madagascar, da quello aromatizzato a quello “puro”. L’evoluzione del prodotto, inoltre, sta riportando il cioccolato alle sue origini: si fa sempre più nero e con percentuali di cacao sempre più alte.

Tra i prodotti al cioccolato italiani, entrati nella storia, non si possono non menzionare la Nutella e l’ovetto Kinder. Nel 1945 entrano in vigore le tasse sul cacao e Pietro Ferrero, nella sua pasticceria di Alba, inventa una pasta solida fatta con il cacao e le nocciole del Piemonte: è la pasta “Giandujot”, un dolce confezionato in pani da tagliare a fette. Nel 1951 questa pasta si fa più cremosa e così arriva nel mercato la “Supercrema”. Ma Michele Ferrero, figlio di Pietro, ancora insoddisfatto del prodotto, incomincia a lavorare per migliorarla: è così che il 20 aprile del ‘64 nasce la Nutella, da Nut, “nocciola”. Il nuovo prodotto verrà venduto in tutto il mondo.

Invece il Kinder Sorpresa, ovvero il “celebre” ovetto Kinder, nasce qualche anno dopo, nel 1974, quando la Ferrero ha l’idea di produrre un nuovo snack al cioccolato ispirato alla Pasqua, contenente quindi, al suo interno, una sorpresa. L’ovetto Kinder in breve tempo conquisterà i bambini (e non solo) di tutto il mondo: fino ad oggi ne sono stati venduti più di 30 miliardi. Le sorprese, ideate da William Salice, ora hanno un mercato: ad esempio, il ''Puffo alle Olimpiadi'' o il ''Puffo sui trampoli'' attualmente valgono 900 euro.

Ma qual è il trend del consumo del cioccolato e come si sviluppa il mercato?
Il sociologo Alessandro Amadori: «Una decina di anni fa sarebbe stato strano sentir parlare di unione tra le spezie da una parte e il cioccolato dall’altra, e invece è quello che è accaduto, per esempio con le praline speziate e aromatizzate che fa la Magnum. Questo è il concetto di contaminazione: cose diverse che si mettono insieme e si sposano, si meticciano, si ibridano e danno luogo a un’innovazione del prodotto. Ecco, il mercato è cambiato secondo queste due linee: il consumatore è diventato sempre più articolato ed esigente e i prodotti diventano sempre più segmentati: prodotti per i bambini, prodotti per gli adolescenti, prodotti per la famiglia, prodotti più per i maschi, e più per le femmine, prodotti che consentano un’attività all’insegna del risparmio calorico, e prodotti invece molto ricchi che hanno come valenza il piacere».

Di conseguenza, per un’azienda che produce praline, anche il nome è fondamentale, ce ne sono di tutti i tipi: quello che comunica eleganza, quello che comunica trasgressione, quello che comunica leggerezza e così via...Di certo quello che comunica “l’amore” per eccellenza è il Bacio Perugina. Il nome “bacio” ha una storia particolare: quando il cioccolatino venne creato all’inizio degli anni ’20, Giovanni Buitoni, uno dei quattro soci fondatori della Perugina, si recò al negozio di Perugia che lo vendeva e quando si accorse che il cioccolatino si chiamava “cazzotto”, perché la forma ricordava quella di un pugno, si indignò molto. Per Buitoni, infatti, non era normale che una persona si recasse la negozio dicendo: “Signorina mi dia qualche cazzotto”, era meglio chiamarlo bacio, e così quel giorno nacque il Bacio Perugina.

Milano e Verona, il panettone vs il pandoro
Alla fine della Prima guerra mondiale Milano vede nascere due grandi aziende: Motta e Alemagna, che fino agli anni ‘60 divideranno ideologicamente i golosi milanesi: due pasticcerie rivali, due salotti rivali, due modi diversi di pensare, e per Maurizio Nichetti anche due diverse tifoserie: “Io non so perché, ma la Motta mi fa venire in mente il Milan e l’Alemagna l’Inter”.

Oggi i due marchi sono stati assorbiti dalla Nestlè, annullando l’antica rivalità, e i due panettoni non vengono più fatti a mano ma esclusivamente con macchinari. Il pandoro, invece, nasce a Verona, non si sa con certezza quale sia l’origine di questo dolce natalizio, ma di certo il nome deriva dal suo tipico colore giallo dovuto all’utilizzo di una grande quantità di uova nell’impasto. Come affermato da Alberto Bauli, Presidente della Bauli s.p.a, la Bauli non ha “inventato il pandoro, noi abbiamo inventato solo il nome. Però noi, negli anni ’60, siamo riusciti a cogliere il desiderio di cambiamento che c’era e di un prodotto locale, tipico di Verona, ne abbiamo fatto un prodotto nazionale”.

La storia dei Bauli inizia nei primi del ‘900 quando Ruggero Bauli, figlio di un artigiano che aveva un laboratorio fuori Verona, decide di fare fortuna in Sud America, dove, dopo essere scampato al naufragio del piroscafo su cui viaggiava, inizia prima a fare il tassista e poi, nel quartiere italiano di Buenos Aires, costruisce la sua piccola fortuna come pasticcere. Nel 1950, consapevole della fortuna che la sua attività poteva offrirgli, intraprende la strada della produzione industriale in Italia. Nasce così la Bauli. Alberto Bauli: «Io non ho mai avuto la vocazione per questo mestiere, però devo dire che questo mestiere droga un po’, nel senso che quando inizi ad avere successo ne vuoi sempre di più, sei sempre portato ad andare avanti e con l’età mi sono appassionato come non avrei mai immaginato. Noi abbiamo avuto per più di vent’anni una comunicazione che è stata sempre la stessa: la gioia del Natale legata al marchio. Non a caso abbiamo un marchio molto grande perché noi abbiamo sempre fatto la comunicazione sul marchio più che sul prodotto».

I biscotti, la dinastia del Mulino
Se per decenni i biscotti sono stati monopolio dell’Inghilterra, con il boom economico l’Italia si presenta al mondo come una nazione moderna: nel ‘61 registra il PIL più alto con l’8,3%. Sono anni in cui con l’evolversi degli usi e dei costumi cambiano anche le abitudini alimentari: il dolce della nonna viene sostituito dalle merendine, i frigoriferi si riempiono di dolci e gelati, e le patatine diventano lo snack da ‘scrocchiare’.

Ma il boom viene seguito da un periodo di stagnazione economica, negli anni ’70: sono molte le categorie lavorative e sociali che scenderanno in piazza contro il governo; la crisi petrolifera che investe il mondo costringe l’Italia all’austerity, alla domenica senza auto. E la crisi investe soprattutto le industrie che così diventano appetibili ai grandi poli alimentari esteri: la Nestlè comprerà Motta, Alemagna e Perugina, mentre Barilla venderà l’azienda all’americana Grace.

Ma a metà degli anni ‘70, proprio alla Barilla si cambierà nuovamente rotta: come ricorda Guido Barilla, presidente della Barilla s.p.a, il fatto fondamentale “fu la decisione del governo di allora di calmierare i prezzi della pasta. Per una società americana avere a che fare con un prodotto con un prezzo fissato dal governo era una follia, per cui la Grace chiese al management Barilla di creare qualcosa, di inventarsi delle cose per uscire da questo sacco in cui si erano cacciati. Una di queste creazioni fu una nuova famiglia di prodotti da forno che potevano essere lanciati e che avevano delle similitudini, delle sinergie di produzione, distribuzione e vendita con i prodotti della pasta. Così nacque Mulino Bianco”. Così alla fine degli anni ’70, Pietro Barilla, incoraggiato dai successi, si ricompra l’azienda e ritorna a dirigerla. Il figlio Guido ricorda: “da quando la vendette nel ‘71 ebbe un solo pensiero: quello di tornare a fare il suo mestiere, per cui quando rientrò, fu un rientro lungo, sofferto, pieno di problemi. Non fu facile, fu per lui il coronamento di un sogno, di un desiderio, soprattutto per l’idea che i suoi figli potessero continuare”.

Il sociologo Armando Amadori: «Nell’immediato dopoguerra i biscotti avevano ancora una connotazione prevalentemente domestica e familiare di prodotto semplice, preparato dai parenti, a forte contenuto funzionale e ancora vicino a una cultura di tipo agricolo. Nel corso degli anni ciò si è modificato, la componente funzionale ha lascito il posto a quella simbolica. Il biscotto è diventato portatore di una serie di valori affettivi ed emozionali. Pensiamo all’operazione Mulino».

Il Mulino Bianco, infatti, farà epoca con una forte comunicazione che suggerisce modelli e stili di vita legati alla pace domestica; le persone a cui si rivolge sono quelle che hanno un nucleo familiare in cui vivere e ritrovarsi, con cui mangiare in intimità. Non a caso il marchio nasce, come afferma Marco Testa, presidente dell’Armando Testa s.p.a, “quando in città si viveva male, quando c’era il terrorismo e il simbolo del Mulino significava il ritorno alla campagna. Una grande immagine di marca è come un sogno che piano piano, alimentato con le campagne pubblicitarie, trasforma il prodotto fino a farlo diventare come se fosse un tuo amico di cui ti fidi, qualcosa di familiare per l’appunto”.

Le caramelle, un prodotto “simpatico”Per Guido Repetto, Amministratore delegato della Elah Dufour, il “problema della caramella è di farsi trovare, una volta trovata infatti la si consuma”. Per spingere le persone a comprare le caramelle, quindi, le aziende nel corso degli anni hanno cercato di fare operazioni di mercato fantasiose: dalla caramella sfusa si è passati allo stick, alla bustina e alle scatoline da collezione. Anche la pubblicità si è mossa attraverso un linguaggio spiritoso, frizzante, che fosse capace di stupire in modo da arrivare agli italiani divertendoli.

La caramella italiana più famosa è forse la Rossana, prodotta dalla Perugina nel 1926. Ma intramontabili sono anche le Pastiglie Leone in commercio dal 1857, le Galatine nate nel 1956 grazie alla Polenghi e ora della Sperlari, la caramella Mou della Elah Dufour, il mitico roll di liquirizia della Haribo, le Morositas, le Pip del fumatore, le Golia, le Alpenliebe della Perfetti e le più recenti Dietorelle.

L’eredità della Seconda guerra mondiale: il Chewingum!
Con la Seconda guerra mondiale arrivano i soldati americani e con loro il chewingum, ovvero la morbida e saporita gomma da masticare. Gli italiani imparano ben presto a consumarne grandi quantità e a copiare gli americani anche nella pubblicità, basti pensare alla serie di spot di Bud Spencer sulle Big Babol. La stessa Perfetti ha venduto il ponte di Brooklyn come simbolo di americanità del prodotto, anche se poi piano piano si è perduto questo tipo di mondo e la comunicazione di Perfetti oggi punta su un’ironia cattiva, dura, e in particolare sull’umorismo all’inglese. Questo perché ogni volta si cerca di inventare nuovi prodotti e comunicazioni per colpire nuovi pubblici.

Il gelato, dalla Coppa del Nonno all’erotismo del Magnum
Non si conosce con esattezza la storia del gelato, di certo era già conosciuto nell’antichità, si può infatti risalire almeno fino a Isacco che offrì ad Abramo latte di capra misto a neve, come riporta la Bibbia: “Mangia e bevi: il sole è ardente e così puoi rinfrescarti”. La leggenda vuole invece che il gelato come "businnes" debba le sue origini al siciliano Francesco Procopio dei Coltelli che, stanco della vita da pescatore, decise di partire in cerca di avventura e nel 1686 aprì un locale a Parigi, il “Café Procope”, dove vendeva anche il gelato artigianale. Il ritrovo diventò ben presto un punto di riferimento per i letterati del tempo, anche nei secoli successivi: da Voltaire a Balzac a Victor Hugo. Tutti a gustare la ricetta originale di Procopio, che era riuscito a trovare il modo di rendere estremamente omogeneo l'insieme di frutta, miele, zucchero e ghiaccio.

Accanto al gelato artigianale, oggi, viene venduto anche quello confezionato. Tra questi le aziende italiane più conosciute sono l’Algida che, nata nel dopoguerra, oggi appartiene alla multinazionale Unilever, e “L’Antica gelateria del Corso” che invece oggi appartiene alla Nestlè. Al primo marchio appartiene il Cremino, il gelato alla panna ricoperto di cacao e sorretto da un bastoncino di legno, mentre al secondo la “Coppa del Nonno”, una crema di latte e caffè creata dalla Motta.

Da allora sono stati inventati gelati industriali di tutti i tipi e per tutti i gusti. Con l’evoluzione del mercato, anche i gelati infatti si sono trasformati, seguendo i gusti dei consumatori e le tendenze del momento. Si sono arricchiti di spezie, creme e golosità, e la pubblicità ne ha assecondato le continue trasformazioni: la peccaminosità dei Magnum, per esempio, viene trasmessa tramite suggestioni erotiche, quali sospiri, sguardi, suoni…